VITA EROICA

10.12.2012 18:55

Vita Eroica

A cura del S.Tenente cpl (r) Antonino Poma

 

Il contributo di sangue e di eroismo offerto dai Carabinieri dall’Unità ad oggi.

In quasi due secoli di vita l'Arma dei Carabinieri ha partecipato, per la sua doppia struttura civile e militare, a tutti gli eventi tragici e positivi della storia d'Italia. Si può dire che ogni famiglia italiana vanta con orgoglio un “pennacchio”, un carabiniere. Pochi sono gli episodi negativi che si possono raccontare sulla “Benemerita”, moltissimi gli atti di eroismo, di abnegazione e attaccamento al servizio, con la “S” maiuscola, come ebbe ad affermare l’indimenticabile Mario Soldati ne “i Racconti del maresciallo”. I fatti negativi non possono certo oscurare la storia secolare di questa nostra “Benemerita” istituzione.

A proposito di “Benemerita” non tutti sanno che ufficialmente l’Arma fu cosi appellata per la prima volta in una frase contenuta nella relazione conclusiva della Commissione Interni inviata al governo nel lontano 1864: “. … in ragione appunto del pregio in cui essa è tenuta e degli indefessi e segnalati servigi che la rendono dovunque veramente benemerita del Paese». Da allora fu per tutti Benemerita.

Incalcolabile è il numero di carabinieri morti nell'adempimento del dovere dal primo Giovanni Boccaccio (1815) ai nostri giorni. Ricordarli tutti è un’impresa impossibile. Mi limito solo a citare qualche episodio raccolto da diverse fonti storiche giornalistiche.

 

I carabinieri in Sicilia dopo l’Unità e la lotta al brigantaggio.

Negli anni seguenti alla riunificazione diventò celebre la frase di Massimo D’Azeglio:  … “purtroppo s’è fatta l’Italia ma non si fanno gli italiani.” Il marchese D’Azeglio ebbe a dire pure: “Meno partiti ci sono, e meglio si cammina. Beati i paesi dove non ve ne sono che due …” Queste  poche parole risultano ancora oggi straordinariamente attuali. Subito dopo l’Unità, in Sicilia, le classi più povere si ritennero ingannati quando si resero conto che non sarebbe stata effettuata alcuna riforma agraria. A peggiorare le cose fu decretato il servizio militare obbligatorio, una ferma di cinque anni, un fatto subito mal tollerato che causò una rilevante e perdurante renitenza, soprattutto nei primi anni postunitari. I renitenti e i disertori, dandosi alla macchia, finivano con l'ingrossare le file della malavita. Per reprimere il brigantaggio il governo impiegò nel territorio nazionale, per la prima volta nella storia, i Carabinieri. In Sicilia si costituirono le prime Stazioni territoriali con un organico di 2.114 carabinieri. Le condizioni nelle quali i carabinieri si trovarono ad operare furono drammatiche. Spesso isolati o costretti a muoversi in piccoli drappelli per individuare le bande armate, si trovarono quasi sempre in situazioni di altissimo pericolo: “Cinque carabinieri della Stazione di Acerenza sorpresi dalla banda Ninco-Nanco, circondati e assaliti, si difesero per tre ore.

Tre caddero morti, gli altri due uccisero un brigante e misero in fuga il resto della banda”. Tanti gli atti di eroismo, i caduti dell’Arma e dei reparti militari aggregati, nella lotta al banditismo in Sicilia e in particolare nella nostra provincia. Non ho purtroppo documenti sufficienti per ricordarli tutti, come meritano. Il 5 agosto 1863, nelle vicinanze di Alcamo, furono uccisi tre carabinieri da una banda di renitenti.  Qualche mese prima, in uno scontro a fuoco nel bosco di Scopello, furono uccisi tre soldati. Sconcertante è l’episodio della fucilazione del carabiniere Giuseppe Mendolia. Il 27 settembre 1866, sulla montagna dello “Sparacio” di Castellammare del Golfo, il brigante Pasquale Turriciano con i suoi uomini circondò e disarmò una squadra formata da sette soldati e il carabiniere Mendolia. Il capobanda promise salva la vita ai soldati se avessero fucilato il carabiniere e così avvenne per la vigliaccheria di quei coscritti.

La tragica fine del carabiniere sconvolse l’opinione pubblica ed accrebbe la fama dello spietato bandito Turriciano.


L’eccidio dei Carabinieri in Albania.

In Albania, subito dopo l’8 settembre 1943, si formò una colonna di circa 1000 carabinieri, 800 militari della Guardia di Finanza e 400 militari dei vari servizi di Presidio, comandata dal Colonnello Giulio Gamucci, con la vana speranza di raggiungere lo scalo ferroviario di Bitoly, in Macedonia, per poi rimpatriare in Italia. La colonna venne più volte attaccata dai partigiani albanesi. Il 24 settembre tra il Passo di Qukes e Xafatan le forze partigiane comuniste catturarono circa 200 carabinieri con il Col. Gamucci. Un testimone oculare dichiarò che: «... il Col. Gamucci subito dopo aver chiesto di essere fucilato lui per tutti fu abbattuto da una raffica di mitra mentre si udivano dal bosco fitte sparatorie e lamenti di persone ...». Nel 1950, la Giustizia italiana processò Staravecka, in stato di detenzione, e Kadri Hoxha, contumace, capo della formazione partigiana, quali autori dell’eccidio, in concorso con altri capi partigiani albanesi del Col. Gamucci e dei suoi Carabinieri. Al processo XHelal Staravecka dichiarò testualmente: «dopo due ore di cammino legammo i carabinieri e li divisi in cinque gruppi e dopo che li ho spogliati e lasciati nudi li ho fucilati. Diciassette li ho uccisi io stesso». Alla fine, dopo giudizi e appelli, la Suprema Corte, con sentenza dell’11 luglio 1955, li condannò ad anni 2 di carcere! Avrebbero preso di più per il furto di una bicicletta! Soltanto Xhelal Staravecka scontò la pena ridotta nelle prigioni italiane, mentre Kadri Hoxha non fu mai arrestato, anzi poté circolare libero a Bari e a Roma. Qualcuno sdegnato avrebbe potuto sparagli un colpo in testa e beccarsi davvero l’ergastolo. Molti anni dopo, nel marzo 1962, su sollecitazione dell’Associazione Nazionale Carabinieri, il Commissariato Generale Onoranze Caduti, iniziò le operazioni di ricerca dei resti mortali dei Carabinieri. Vennero rinvenuti soltanto due teschi, dei quali uno attribuito con sicurezza al valoroso Colonnello Giulio Gamucci. Sul quotidiano «Il Giornale» del 3 ottobre 1992 nell’articolo dal titolo «L’Eccidio dei Carabinieri - In Albania fossa comune con 129 italiani giustiziati dai partigiani» di Eugenio Melani, apparve una intervista a Kadri Hoxha secondo la quale circa 200 militari italiani, quasi tutti carabinieri al comando di Gamucci, dopo essere stati aggregati ai partigiani vennero «uccisi come cani» per ordine del Capo di Stato Maggiore della Brigata partigiana operante nella zona e i nomi dei militari italiani uccisi furono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale albanese ed indicati come nemici del comunismo. Nessun riconoscimento è stato concesso ai carabinieri di ogni grado. Solo nei confronti del Col. Gamucci venne inoltrata proposta di Medaglia d’Argento al V.M. archiviata «per perenzione dei termini». Vergogna!

 

L’eccidio di Malga Bala.

Nel 1944, unità paramilitari slave comuniste in località Malga Bala perpetrarono l’eccidio di 12 carabinieri. Il tribunale militare di Padova in un suo atto istruttorio così descrisse il crimine: “Nel Marzo del 1944 dodici carabinieri in forza alla compagnia di Tarvisio, preposti alla sorveglianza di una centrale elettrica in Bretto inferiore, all’epoca territorio Italiano, dopo essere fatti prigionie da partigiani appartenenti al X Corpus sloveno facente capo all’esercito di liberazione Jugoslavo di Tito, di nazionalità slovena-italiana, furono condotti in una località denominata Malga Bala, ove vennero trucidati ed uccisi con modalità connotate da tale disumana efferatezza, da tristemente distinguersi, pur in anni di incontrollata violenza bellica, fino a quantificare il fatto come uno dei più gravi crimini di guerra commessi sul territorio italiano”. I partigiani comunisti fecero bere agli ignari carabinieri un miscuglio nel quale era stata aggiunta della soda caustica e del sale nero, una miscela usata come purgante per il bestiame. In preda ad atroci spasmi, la mattina del 25 marzo i carabinieri furono costretti a raggiungere il casolare di Malga Bala. Il Vicebrigadiere Perpignano, comandante del reparto, venne arpionato ad un calcagno con un uncino come un animale da macello, appeso a testa in giù e costretto a vedere la fine dei propri dipendenti. Fu finito in modo atroce, a pedate in testa. Gli altri carabinieri furono sterminati barbaramente a colpi di picone, dopo essere stati incaprettati con filo di ferro, legato anche ai testicoli, così da ampliare il dolore. Ad alcuni furono tagliati i genitali e conficcati loro in bocca; ad altri vennero tagliuzzati gli occhi; ad altri ancora venne poi sventrato il cuore; in particolare, al Carabiniere Amenici venne infilata nel petto spaccato la foto dei figli. La "mattanza" terminò con i corpi dei malcapitati legati col filo di ferro e trascinati, come bestie, ai piedi di un grosso masso. Lì furono scoperti da una pattuglia di soldati tedeschi in perlustrazione. Il tribunale di Padova, pur avendo comprovato la disumana efferatezza del crimine, ha dovuto archiviare il caso per sostanziale impossibilità di assicurare alla giustizia i probabili colpevoli, perché le autorità slovene ignobilmente non hanno mai collaborato. Non solo: uno dei capi del commando carnefici, Alojz Hrovat, residente in Slovenia, dopo la guerra ha anche ricevuto la pensione dall’Inps dell’Italia, grazie alle sue gesta partigiane. Il colmo è che non è il solo: anche altri partigiani comunisti filotitini  responsabili di questo eccidio, delle foibe ed altri crimini di guerra, pur identificati e denunciati, ricevono ancor oggi la pensione di guerra dalla REPUBBLICA italiana, grazie al trattato di pace tra l’Italia e l’ex Iugoslavia. Per chi non lo sapesse, l'Inps eroga 29.149 pensioni nell'ex Jugoslavia spendendo circa 200miliardi di vecchie lire l'anno. In Italia c’è chi vive di fame, senza pensione.

Il presidente della Sezione A.N.Carabinieri di Brescia, Maresciallo Arrigo Varano, si adoperò con ostinazione per far ottenere una medaglia alla memoria ai martiri di Malga Bala. Il Presidente della Repubblica Italiana, ha infine concesso una medaglia d’oro al merito civile ai dodici carabinieri, ora sepolti nel tempio ossario costruito dal “Comitato Onoranze ai caduti nel comune di Tarvisio”.

I militari assassinati:

Primo Amenici, carabiniere nato a Crespino il 5 settembre 1905;

Lino Bertogli, carabiniere nato a Casola Montefiorino il 19 marzo 1921;

Ridolfo Colsi, carabiniere nato a Signa il 3 febbraio 1920;

Michele Castellano, carabiniere ausiliario nato a Rochetta S.Antonio l'11 novembre 1910;

Domenico Dal Vecchio, carabiniere nato a Refronto il 18 ottobre 1924;

Fernando Ferretti, carabiniere nato a San Martino in Rio il 4 luglio 1920;

Antonio Ferro, carabiniere nato a Rosolina il 16 febbraio 1923;

Attilio Franzan, carabiniere nato a Prola Vicentina il 9 ottobre 1913;

Dino Perpignano, vice brigadiere nato a Sommacampagna il 17 agosto 1921;

Pasquale Ruggero, carabiniere nato a Airola l'11 febbraio 1924;

Pietro Tognazzo, carabiniere ausiliario nato a Pontevigodarzere il 30 giugno 1912;

Adelmino Zilio, carabiniere nato a Prozolo di Camponogara il 15 giugno 1921.

Lo sterminio degli istriani, dalmati, la cosiddetta guerra etnica contro gli italia­ni, l’espropriazione dei loro beni, delle case, è rimasto per troppo tempo un tabù, un segreto tenuto nascosto. La propensione del partito comunista italiano fu nel dopoguerra di negare la tragedia delle foibe. Le foibe sono cavità del Carso triestino e istriano. Dopo l’8 settembre 1943 e fino al ’44, e poi di nuovo nei mesi seguenti l’aprile ’45, vennero infoibati dai 10 ai 15.000 italiani. Dal primo maggio al 15 giugno 1945, nella sola voragine di Basovizza, una frazione del comune di Trieste, sono state gettate circa 2.500 persone tra civili, carabinieri, finanzieri e militari italiani. Anche un Sacerdote, Don Tarticchio, dopo essere stato evirato ed incoronato con il filo spinato fu gettato in quelle orrende voragini insieme ad una povera maestrina, Norma Cossetto, a cui furono recisi i seni e sul cui corpo furono lasciati segni bestiali, violentata da 17 partigiani comunisti titini. Il braccio destro di Tito, Gilas, raccontò: "Mi fu ordinato di cacciare gli italiani con qualsiasi mezzo, e così fu fatto". Il silenzio su quelle stragi serviva alla sinistra a non offuscare la gloria dell'esercito di liberazione di Tito, e a non mettere in cattiva luce la soddisfazione di Togliatti per l'occupazione comunista di quelle terre giuliane, verso cui si trasferirono - per essere fatalmente delusi - addirittura operai italiani convinti dalla propaganda a raggiungere le terre finalmente "liberate".

 

I martiri di Fiesole.

Estate del 1944. Fiesole, vicino a Firenze, è ancora nelle mani dei nazisti. Le scorribande dei partigiani sono sempre più pressanti. A prendere parte attiva alla lotta partigiana della zona anche i carabinieri di stanza a Fiesole. Al comandante della stazione locale dei carabinieri, vicebrigadiere Giuseppe Amico, è affidato il comando di una delle squadre d’azione. La missione dei carabinieri è camuffata dal consueto servizio che svolgono nelle vie della cittadina occupata dai nazisti. I carabinieri offrono copertura e appoggio logistico ai partigiani e forniscono loro informazioni utili. La sera del 28 luglio 1944 il vicebrigadiere incarica tre carabinieri di scortare un portaordini partigiano che dovrà consegnare un messaggio ad una staffetta. Il messaggio è nascosto nel tacco della scarpa del carabiniere Pasquale Ciofini. Purtroppo una pattuglia di tedeschi li intercetta. Si scatena un conflitto a fuoco tra i tre militi e i nazisti, che riescono a catturare il partigiano e il carabiniere Sebastiano Pandolfi. Interrogati e torturati vengono entrambi uccisi. I militari della stazione temono che Pandolfi possa aver parlato sotto tortura, ma evidentemente così non è. Al carabiniere è stata conferita la Medaglia d'Argento al Valor Militare. Infatti il vicebrigadiere Amico viene convocato al comando nazista dove si finge incredulo riguardo all’attività partigiana del suo dipendente, e si inventa che lo stesso si era arbitrariamente allontanato dalla stazione. Rientrato in caserma, per precauzione, manda in permesso il carabiniere Ciofini, che aveva partecipato al conflitto a fuoco. Agli inizi di agosto le forze alleate sono ormai vicine. I nazisti fanno saltare tutti i ponti del capoluogo toscano e in tutta la zona viene proclamato lo stato di emergenza. Un bando ordina a tutti gli uomini abili compresi tra i 17 e i 45 anni di presentarsi ai tedeschi per essere destinati a compiti di appoggio civile all’esercito. Molti fuggono, altri si nascondono presso conventi e chiese. I carabinieri ancora una volta aiutano come possono i fuggitivi facilitandone la fuga e portando loro i viveri. I tedeschi diffidano ormai di tutti. L’intrepido vicebrigadiere Amico (meriterebbe una medaglia d’oro), esempio luminoso per tutti i giovani sottufficiali dei carabinieri, il 6 agosto è arrestato e internato in un campo di prigionia, dal quale riuscirà a fuggire pochi giorni dopo per unirsi ai partigiani. Nonostante lo sbando, la la perdita del loro coraggioso comandante, i carabinieri rimasti alla stazione di Fiesole, Vittorio Marandola, Fulvio Sbarretti e Alberto La Rocca, restano al loro posto in attesa di ordini e continuano a prestare servizio proteggendo i civili e gli uomini della resistenza. Il vicebrigadiere Amico fa pervenire dalla clandestinità ai suoi carabinieri l’ordine di abbandonare la caserma e di presentarsi a lui a Firenze per unirsi ai partigiani. I tre militi obbediscono e travestiti da “fratelli della misericordia” tentano di raggiungerlo.  Il comandante tedesco, tenente Hiesserich, informato della fuga dei carabinieri convocò furioso due funzionari del Comune e ordinò loro di comunicare ai tre carabinieri che se non si presentavano immediatamente avrebbe fucilato 10 ostaggi civili già radunati.  Il segretario comunale andò subito dal vescovo, monsignor Giovanni Georgis, per informarlo dell’accaduto con la speranza che potesse aiutarlo a trovare i tre fuggiaschi. Rintracciati e appresa la terribile notizia, i carabinieri decisero di consegnarsi. Intanto la voce si era sparsa per tutta la cittadina. Tutta Fiesole era col fiato sospeso per gli ostaggi ma anche per i Carabinieri della Stazione, che più volte avevano rischiato la vita per difendere la popolazione inerme. È il pomeriggio del 12 agosto quando i carabinieri si presentano al comando tedesco per affrontare il martirio al posto dei cittadini che il loro dovere imponeva salvare anche a costa della vita. Questo è lo spirito dell’Arma: proteggere, difendere i cittadini sino all’estremo sacrificio! Alle 20,30, in un giardino attiguo all’Albergo Aurora, requisito dai tedeschi, i carabinieri Vittorio Marandola, Fulvio Sbarretti e Alberto La Rocca, rendono il loro ultimo servizio all’Arma e all’Italia che di lì a poco sarà liberata: una raffica di mitra spegne per sempre la loro eroica esistenza. Ai tre carabinieri di Fiesole è stata conferita la medaglia d’oro al valor militare. Nel novembre del 1986 Papa Giovanni Paolo II pregò sui piedi del monumento che ricorda l'episodio e disse: Dobbiamo grande riconoscenza a coloro che, come questi giovani, sanno offrire la propria vita per la libertà, per la pace e per la giustizia. Il gesto di questi valorosi è il più elevato ed epico che io carabiniere possa ricordare. I carabinieri di Fiesole erano in salvo, nascosti, e li potevano restare, nessuno in verità li obbligò a presentarsi. Sentivano la responsabilità delle loro azioni nella lotta clandestina contro i tedeschi, azioni che forse indirettamente avevano coinvolto quegli ostaggi del tutto innocenti. Non ricordo altri casi in cui, dopo azioni o attentati i partigiani si siano consegnati ai tedeschi per salvare la vita agli ostaggi. Il “Dovere” con la “D” maiuscola è impresso sulla carne del carabiniere dal momento che riceve gli alamari. Non so descrivere, povero me, la sensazione che provai il giorno che per la prima volta indossai gli alamari, è qualcosa di straordinario, oserei dire di sacro. Ho smesso la divisa, ma gli alamari no, sono rimasti sotto la carne e me li porterò appresso.    

 

L’eroica fine del Vicebrigadiere Salvo D’Acquisto.

Salvo D'Acquisto è nato a Napoli il 17 ottobre 1920. Arruolato volontario nell'Arma dei Carabinieri il 15 agosto 1939, fu promosso carabiniere il 15 gennaio 1940. Mobilitato per Tripoli il 23 novembre 1940, tornò in Italia per frequentare il corso sottufficiali a Firenze dal 13 settembre 1942 al 15 dicembre successivo. Fu destinato in sottordine alla stazione di Torrimpietra, una borgata a 30 km. da Roma. Il 23 settembre 1943, visse uno degli episodi più eroici offerti da un carabiniere nel corso della storia dell'Arma. Dopo l'8 settembre 1943, a seguito dei combattimenti alle porte della Capitale, un reparto di SS tedesco si era installato nel territorio della Stazione di Torrimpietra, occupando una caserma abbandonata della Guardia di Finanza sita nella "Torre di Palidoro" borgata limitrofa a Torrimpietra. In tale caserma, la sera del 22 settembre di quello stesso anno, alcuni soldati tedeschi, rovistando in una cassa abbandonata, provocarono lo scoppio di una bomba a mano: uno dei militari rimase ucciso ed altri due furono gravemente feriti. Il fortuito episodio fu inteso dai tedeschi come un attentato. L'ufficiale tedesco decise la rappresaglia. Furono presi 22 inermi ed innocenti cittadini, caricati su di un autocarro e trasportati ai piedi della Torre di Palidoro, insieme al Vice Brigadiere Salvo D’Acquisto. Salvo D'Acquisto, vista vana ogni speranza, si accusò dell’immaginario attentato chiedendo in cambio la liberazione degli ostaggi, cosa che avvenne. Una scarica di mitra concluse eroicamente la sua giovane esistenza il 23 settembre 1943. Salvo D’Acquisto si unì così, idealmente, a tutti coloro che nella Resistenza e nella Guerra di Liberazione avevano fatto dono di sé stessi a un ideale di giustizia e di libertà. Umberto II, con Decreto "Motu Proprio" del 25 febbraio 1945, conferì al vicebrigadiere la Medaglia d'Oro al Valor Militare. Dopo il martirio di Salvo D'Acquisto molti comuni italiani hanno dedicato al suo nome strade o piazze, così come sono a lui intitolate numerose caserme dell'Arma nel cui culto era cresciuto, nipote per parte materna di tre carabinieri. Il 4 novembre 1983, nella sede dell'Ordinariato Militare, è stato insediato il Tribunale ecclesiastico chiamato a decidere nella causa di canonizzazione del servo di Dio Salvo D'Acquisto.

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(Fonte Comando Generale Arma Carabinieri)
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L’eccidio del 13 settembre 1943 dei Carabinieri a Teverola (Caserta).

Nel disastro totale dell’8 settembre 1943 non poteva e non fece eccezione la Campania. A Napoli, nei caotici e concitati giorni che andarono dal 9 all’11 settembre, l’Arma dei Carabinieri, la Questura, e la Guardia di Finanza, rimasero i soli responsabili dell’Ordine Pubblico e della Pubblica Sicurezza. La prima decisione dei tedeschi era quella di occupare la Prefettura e la caserma dei Carabinieri Pastrengo. Decisi a contrastare l’iniziativa si organizzarono le prime difese con i militari di Palazzo Salerno e della Stazione dell’Arma in “Palazzo Reale”. Nel pomeriggio del 10 settembre, il S.Tenente Cavaccini e 20 carabinieri, ebbero un conflitto a fuoco con un autocarro di tedeschi. Un Ufficiale e due militari tedeschi rimasero uccisi, mentre il S.Tenente Cavaccini e i carabinieri Tomarchio e Finocchiaro rimasero feriti. Poche ore dopo, alle ore 18,00 circa, come previsto, veniva attaccata la Caserma Pastrengo. I carabinieri agli ordini del Ten. Col. Minniti reagirono al fuoco nemico con le armi leggere in loro possesso. Nel contempo, un gruppo di 10 militari tedeschi si impadroniva di palazzo Reale, ma il Mar. Maggiore Azan Carlo, unitamente ad altri militari, sventò la manovra e fece prigionieri i soldati tedeschi. Il carabiniere Bartolomeo di servizio all’ingresso di Palazzo Reale, fatto bersaglio dal nemico, reagì prontamente uccidendo due soldati e ferendone un terzo. Il giorno dopo, alle ore 14,00 una colonna tedesca tentò di occupare il Palazzo dei telefoni, ma fu respinta dai militari dell’Arma e da altri rinforzi della fanteria. Alla fine della sparatoria i tedeschi furono costretti a ritirarsi e a lasciare sul terreno tre morti, tra cui il capitano comandante e diversi automezzi fuori uso. A protezione del palazzo rimasero i carabinieri della stazione “Porto” che poco avrebbero potuto fare in caso di un nuovo attacco. In questo confuso e tragico quadro, quasi come se fosse un preannuncio, si consumò la terribile giornata del successivo 12 Settembre 1943. I tedeschi presero il Comando Militare della città con violenza e ferocia inaudita. Prendendo a pretesto un ultimo agguato consumato con armi a danno di militari tedeschi, si scatenò una gigantesca retata di civili, anziani, donne, bambini, militari, forze dell’ordine e 14 carabinieri della stazione “Porto”. I carabinieri con una schiera di uomini, vennero poi avviati in direzione di Aversa. Nella notte del 13 Settembre raggiunsero in colonna un improvvisato campo di raccolta, in località “Madama Vincenza”, nel comune di Teverola. Verso le ore 15,00 i 14 carabinieri assieme ai 2 civili furono posti davanti ad una mitragliatrice e assassinati. I carabinieri coscientemente vissero il martirio, s’immolarono al posto di tanti altri ostaggi, e pur consapevoli della vendetta dei tedeschi contro i quali avevano pur combattuto lealmente, non abbandonarono la loro caserma. Quei 14 carabinieri rappresentano la secolare immagine del carabiniere che vive tra la gente e sa per essa offrire anche la vita. Furono tutti decorati di Medaglia d'Argento al Valor Militare. Questi i loro nomi: brigadiere Egidio Lombardi, appuntato Emilio Ammaturo, carabinieri Ciro Alvino, Antonio Carbone, Giuseppe Covino, Michele Covino, Nicola Cusatis, Domenico Dubini, Domenico Franco, Martino Giovanni Manzo, Giuseppe Pagliuca, Giuseppe Ricca, Giovanni Russo, Emiddio Scola.

Il 13 settembre 2003, in occasione del 60° anniversario di quel tragico avvenimento, l'Associazione Nazionale Carabinieri, ha indetto il raduno interregionale, per ricordare e commemorare i propri commilitoni che sacrificarono la loro vita in difesa dello Stato e delle Istituzioni.

 

La strage di Bellolampo.

La sera del 19 agosto del 1949, nella località denominata Passo di Rigano a circa 10 chilometri da Palermo, il bandito Salvatore Giuliano perpetrò un attentato ai danni di una colonna di mezzi dei carabinieri del XII Battaglione di Palermo, che stavano rientrando dopo l’intervento per un attacco che i banditi avevano sferrato contro la caserma di Bellolampo, allo scopo di attirare nella zona forze dell’ordine e colpirle. Una potente mina esplose al passaggio dei mezzi e uccise i carabinieri Giovan Battista Aloe, di Cosenza, Armando Loddo, di Reggio Calabria, Sergio Mancini, di Roma, Pasquale Antonio Marcone, di Napoli, Gabriele Palandrani, di Ascoli Piceno, Carlo Antonio Pabusa, di Cagliari e Ilario Russo, di Caserta. Altri 10 carabinieri rimasero feriti gravemente.

 

La strage di Ciaculli.

La "prima guerra di mafia" negli anni ’60 finisce con la strage di Ciaculli, borgata di Palermo. Cinque carabinieri e due militari persero la vita nell’attentato: tenente dei carabinieri Mario Malausa, marescialli dei carabinieri Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli, maresciallo dell'esercito Pasquale Nuccio, soldato Giorgio Ciacci. La mafia alza il tiro e colpisce le Istituzioni. Il 30 giugno 1963, a seguito di una telefonata anonima, un'auto dei carabinieri si recò sulla strada provinciale 37 che collega Gibilrossa a Ciaculli rinvenendo una Alfa Romeo Giulietta abbandonata con le portiere aperte. Sul posto fu chiamata una squadra di artificieri. Questi ispezionata l'auto, tagliarono la miccia di una bombola trovata all'interno dell’abitacolo. Ma la bombola era solo un trucco, poiché all'apertura del bagagliaio da parte del tenente Mario Malausa, comandante della tenenza di Roccella, l’auto esplose con tutto il suo carico di tritolo.

Dopo quasi mezzo secolo, si ignorano ancora esecutori e mandanti.

 

La strage di Alcamo Marina.

La notte il 27 gennaio 1976, un commando fece irruzione nella casermetta dei carabinieri di Alcamo Marina fondendo la serratura con la fiamma ossidrica per non far rumore, uccidendo a colpi d’arma da fuoco due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, che riposavano sulle brandine. Una strage dimenticata, un giallo che ancora oggi crea dubbi e veleni. Molti ancora oggi gli interrogativi nonostante poco dopo lo scempio siano state ritrovate le armi, le divise e i tesserini dei carabinieri uccisi. L’appuntato Salvatore Falcetta attendeva il trasferimento proprio per la stazione carabinieri di Buseto Palizzolo. “Dovrò sostituite un collega che ha chiesto un periodo di licenza più lungo del previsto, poi andrò a Buseto”, disse ai familiari in una delle ultime telefonate dopo l’Epifania di quel 1976.

 

L’eccidio di Cervignano del Friuli.

Il 28 aprile 1945, dal centro abitato di Cervignano del Friuli (Udine), un nucleo di tedeschi tentò di trasportare in Germania sei autocarri carichi di grano, saccheggiati alla povera gente del luogo.

Il comandante della stazione carabinieri maresciallo Mazzullo Cirino, l’allievo milite Bernardis Angelo Giuseppe, i carabinieri Orlando Canio, Scaccini Dante e Di Chiera Vincenzo, insieme con alcuni finanzieri e partigiani, riuscirono a rintracciare e fermare i sei autocarri, disarmando e arrestandoli i ladri tedeschi.

Alle prime ore dell’indomani, domenica 29 aprile, piombava su Cervignano un agguerrito reparto delle S.S. naziste, comandato da un giovane capitano, che e immediatamente piazzava le mitragliatrici di fronte la caserma dei carabinieri e nella piazza della città.

Contemporaneamente diverse squadre di tedeschi, con armi automatiche e bombe, iniziarono il rastrellamento del centro abitato.

Dalla caserma furono prelevati il maresciallo Mazzullo e il carabiniere Oddo Antonio. I militari catturati furono condotti al posto di raccolta creato all’interno dell’albergo Friuli, in piazza unità.

Lì il maresciallo Mazzullo e l’allievo milite Bernardis furono riconosciuti dai conducenti tedeschi fatti prigionieri il giorno prima, e separati dagli altri rastrellati. Portati in una camera del primo piano, furono barbaramente pestati con i calci dei fucili.

Verso le ore 12,00, i tedeschi avevano catturato circa 150 persone, compreso il brigadiere Zanutel Giuseppe, il vicebrigadiere Aranciotta Baldassare, i carabinieri Amore Antonio e Orlando Canio.

I rastrellati, furono passati in rivista da quei soldati tedeschi che il giorno prima erano stati imprigionati.

I ventuno che i soldati tedeschi indicavano quali responsabili del loro arresto, furono condotti in una camera al primo piano dell’albergo Friuli. Torturati e derubati di ogni oggetto di valore che tenevano addosso, furono divisi ancora in due gruppi.

Tredici del primo gruppo, tra cui, il maresciallo Mazzullo, il vicebrigadiere Aranciotta, i carabinieri Amore e Orlando, i tre finanzieri Potzolu Pierino, Marchet Remo e Feoli Sabato, furono condotti in località Fornace Sarcinelli, sulla riva destra del fiume Aussa, e subito fucilati.

Alcuni corpi caduti nell’acqua furono ripescati la mattina del giorno 2 maggio. Tra questi il maresciallo Mazzullo e il finanziere Feoli.                      

Verso le ore 14,00 i restanti otto del secondo gruppo furono fucilati in località Tre Ponti, a circa due chilometri da Cervignano.

Verso le ore 14,30 dello stesso 29 aprile i tedeschi lasciarono liberi i restanti ostaggi con la minaccia di non circolare per le strade.

Anche il brigadiere Zanutel e i carabinieri Oddo e Zito, dopo l’eccidio, furono rimessi in libertà. Lo stato di assedio della città durò sino al mattino del 1° maggio.

Prima di abbandonare la città, i tedeschi saccheggiarono la caserma dell’arma impadronendosi del denaro custodito in cassaforte.

Fu l’ultimo eccidio compiuto in quel territorio dai nazisti. Infatti, poche ore dopo la loro fuga, alle ore 11,00 circa, fecero ingresso in Cervignano le truppe alleate: troppo tardi per salvare quelle sfortunate vite umane.

Il vicebrigadiere Aranciotta Baldassare e tutti i restanti carabinieri, finanzieri compresi, mantennero un contegno fiero davanti il plotone d’esecuzione. Qualcuno gridò “viva l’Italia”. 

Una triste pagina degli ultimi giorni di guerra. I tedeschi, sconfitti e allo sbando, si erano resi responsabili del furto del grano, mentre i carabinieri avevano fatto il loro dovere sequestrando la refurtiva e arrestando i ladri. Alla barbarie, i tedeschi aggiunsero il furto e l’assassinio d’innocenti. Chi sa se hanno pagato per i loro crimini. Ci consola pensare che se sono scampati alla giustizia terrena, sicuramente non sono sfuggiti a quella divina.

Il vicebrigadiere Aranciotta Baldassare era originario di Paceco. Appena diplomato maestro di scuola si arruolò nell’Arma per seguire l’esempio di altri tre suoi fratelli. Visse quella breve esperienza nell’Arma con spirito di sacrificio e serena rassegnazione. L’occupazione armata dei tedeschi rendeva assai difficile il servizio territoriale ai carabinieri rimasti fedeli al Re. Compito principale dei Reali Carabinieri era difendere la popolazione anche a costo della vita. Il vicebrigadiere Aranciotta compì il suo dovere sino all’estremo sacrificio con fermezza e coraggio. Il suo sacrificio è di esempio per i giovani carabinieri appena promossi.

La Sezione ANC di Trapani è dedicata al Vice Brigadiere Baldassare Aranciotta.

I fratelli Aranciotta.